Quando è arrivata a Roma dall’Eritrea era terrorizzata dal tumore che le aveva devastato la gamba
La malattia non è sconfitta, ma i suoi occhi brillano di speranza
di Rossana Ruggiero
«Ciao Rossana, vado a trovare Smret al “Bambin Gesù”, vieni?». E io, dall’altra parte del telefono: «Ciao Giuliano. Certo, tra quindici minuti ci vediamo lì». È domenica e sul colle Gianicolo — a parte poter apprezzare la bellezza di Roma e il suo panorama — imperano la scritta rassicurante dell’Ospedale, che i romani affettuosamente chiamano Ospedale del Papa — che, poi, è l’Ospedale dei bambini del mondo — e le luci delle stanze dei piccoli ricoverati e della speranza delle loro madri e dei loro padri. A qualunque ora mi capiti di passare da lì, mi racchiudo in un inusuale silenzio, come quello che si osserva in chiesa, che un po’ fa ripensare alla quiete del fiume Gave de Pau, ai piedi della grotta di Lourdes.
Smret è ricoverata al Bambino Gesù ed è stata sottoposta ad un delicatissimo intervento chirurgico, il primo di un faticoso piano di cure previsto per contenere lo stato della sua malattia. Giuliano Crepaldi, presidente dell’associazione San Vincenzo de’ Paoli di Roma, narra la storia di Smret: un’adolescente di quindici anni vissuta in un villaggio a circa 30 chilometri da Asmara, giunta in Italia grazie al progetto umanitario «io amo l’Etiopia» che, in collaborazione con le Figlie della Carità etiopi ed eritree, ha la finalità di segnalare i casi più gravi di minori che nella loro terra non possono essere curati. Dopo immotivate lungaggini burocratiche è arrivata a Roma con sua madre Olga, portando con sé l’osteosarcoma del femore, malattia ingravescente e invalidante.
«Da quando è atterrata», racconta Giuliano, «Smret non è più solo la foto e un nome su un passaporto, ma un volto, un sorriso, una ragazza con tanta voglia di vivere nonostante la malattia».
È stata accolta dall’Ospedale Bambino Gesù, partner del progetto, per le cure necessarie volte a offrire sollievo dal dolore e garantire la migliore qualità di vita possibile per il tempo che la malattia le concederà, vista anche la presenza di una malattia ai polmoni.
Arriviamo in reparto e per me è il primo incontro con lei; non so se farmi avanti ed entrare o restare timidamente sulla soglia, ma il cenno di Giuliano è chiaro e mi indica di farmi avanti senza timore. In quel momento, non so se sia stata più lei — dopo un difficile intervento — a dare coraggio a me con quegli occhi pieni di alba o io che, nella commozione, provavo con piccoli gesti ad accorciare le distanze linguistiche senza tuttavia riuscirci. Saluto Smret mandandole un bacio da lontano e sua madre Olga, che ci accompagna verso l’uscita dal reparto. Nel dolore tante domande mi attanagliano, come reti in mezzo al mare, capaci di raccogliere nell’immensità tutto quello che trovano. Giuseppe Maria Milano, oncologo del Bambino Gesù, può aiutarmi a ritrovare un senso a tanto dolore e risposte alle mie domande.
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Vado a trovarlo in reparto, chiedendogli di parlarmi di Smret e della speranza del futuro. «Quando l’ho conosciuta era molto spaventata, anzi terrorizzata, sia per il tumore di grossissime dimensioni che aveva completamente deformato la sua gamba, sia per il distacco dalla sua terra. Durante il nostro primo incontro ci siamo guardati con sospetto e non è stato facile dirle cosa facessi lì. Sono stati necessari diversi colloqui — supportati da interpreti — per chiarire chi fossi e quale fosse lo stato della sua malattia». Giuseppe Maria Milano mi racconta il dramma dell’equipe sanitaria nel dover scegliere di procedere ad un intervento di amputazione dell’arto inferiore; dramma che, al contrario, ha generato un radicale cambiamento in Smret, perché l’ha finalmente liberata dal male che aveva reso inservibile l’uso della gamba. «Al ritorno in oncologia — prosegue Giuseppe Maria — vedere Smret più sorridente, solare, iniziare ad imparare l’italiano attraverso i canali YouTube, ascoltare musica, probabilmente fiduciosa di poter tornare a ballare, è stata una luce continua di speranza».
Nell’esperienza del malato e delle relazioni che curano, la speranza è una variabile fondamentale, perché nel momento in cui viene a mancare, si blocca il processo che porta a pensare al futuro, ma soprattutto a controllare il futuro, che dà senso alla storia e alla vita.
Chiedo a Giuseppe Maria se può dirsi riattivato il processo della speranza in Smret. «Al momento sì — risponde —, ma non dobbiamo stupirci se cambierà l’umore o si affievolirà il suo sorriso, perché l’obiettivo di garantirle la miglior sopravvivenza possibile e la miglior qualità di vita, adesso complicata dalla malattia polmonare, richiederà un nuovo intervento a garanzia di un prolungamento della sopravvivenza, pur nell’inguaribilità della malattia». Non esita nel ribadire che la speranza non ha un tempo e i ragazzi, nonostante la malattia, preservano sempre la loro progettualità e la loro idea di futuro, che si sostanzia nel raggiungimento dei piccoli obiettivi: la laurea, la patente, l’esame, la festa, perché quelli rappresentano i loro punti di futuro. La loro percezione, vivendo il dramma della malattia, è differente dalla nostra, in quanto paradossalmente spostano la lancetta del futuro indietro, perché non vogliono pensare troppo spesso in avanti.
Giuseppe Maria Milano conclude il nostro incontro lasciandomi un pensiero: «Quello che occorre dire di una ragazza che viene da un altro mondo è che la sua accoglienza non deve essere legata esclusivamente a una necessità sanitaria, ma la sua presa in carico deve essere globale, mettendo tutti, dapprima i curanti, nella condizione di avere gli strumenti per gestire quella sofferenza e tutto ciò che porta con sé, in quanto spesso, le barriere culturali e sociali sono un ostacolo alla miglior cura».
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Sono tornata a trovare Smret altre volte: al Gelsomino, la casa di accoglienza che ospita le famiglie dei pazienti in cura all’Ospedale Bambino Gesù e, come dice Giuliano, nonostante la difficoltà linguistica sia Smret che la sua mamma, riescono comunque a comunicare con lo sguardo, i sorrisi, le strette di mano, attraverso il linguaggio dell’amore, che è universale; ma anche dopo l’intervento chirurgico ai polmoni, e ho chiesto a Olga — grazie a Suor Azieb che mi ha fatto da interprete — se avesse bisogno di qualcosa. Lei mi ha guardata dicendo solo ciò in cui spera, la guarigione di sua figlia. E questo è ciò per cui tutti preghiamo ogni volta che incrociamo gli occhi di Smret che non smettono di parlarci di speranza e di futuro.